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Le mancate autorizzazioni amministrative non salvano il contribuente dalla disapplicazione della disciplina sulle società di comodo

Con l’ordinanza n. 24732/2025 la Cassazione si è espressa in tema di condizioni oggettive che una società può richiamare per richiedere la disapplicazione della disciplina antielusiva sulle società di comodo. In particolare, è stato affermato il principio secondo il quale il mancato ottenimento delle autorizzazioni amministrative (permessi e licenze) per lo svolgimento dell’attività non legittima, di per sé, la disapplicazione della disciplina antielusiva prevista per le società di comodo, dovendo altresì appurare se l’impedimento al conseguimento dell’oggetto sociale dipenda da una scelta soggettiva dall’imprenditore che comunque decida di tenere in vita la società per anni, anche se lo svolgimento dell’attività risulta precluso.

Società di comodo e mancati permessi: no alla disapplicazione

La normativa sulle società di comodo, di cui all’articolo 30 L. 724/94, è stata introdotta dal legislatore fiscale con l’intento di andare a colpire l’utilizzo della forma societaria per finalità di mero godimento patrimoniale. A tale fine è stato individuato un meccanismo presuntivo per la definizione di soglia minima di operatività, espressa come percentuale dei valori patrimoniali iscritti in bilancio. L’eventuale mancato superamento di queste soglie determina una presunzione legale relativa di inattività, accompagnata dalla conseguente imputazione di un reddito minimo. Il contribuente, tuttavia, può giustificare che il mancato raggiungimento degli standard minimi di ricavi non è imputabile a scelte elusive, bensì a circostanze oggettive e indipendenti dalla propria volontà.

La pronuncia in esame riguarda una società operante nel settore dell’hotellerie che aveva presentato istanza di disapplicazione della disciplina sulle società di comodo, per più anni, argomentando il mancato superamento del test di vitalità con lo stato di non agibilità e di fatiscenza dell’immobile da adibire ad attività alberghiera. La società ha asserito di essere sempre stata operativa documentando i vari tentativi di alienare l’Immobile, di monetizzarlo ed anche di riconvertirlo, ma lo stato di degrado, così come documentato da perizia tecnica, e le difficoltà di ottenere permessi e licenze hanno impedito l’esercizio dell’attività.

L’Agenzia delle Entrate rigettava le istanze e accertava il mancato superamento del test di operatività, notificando gli avvisi di accertamento con determinazione del reddito minimo presunto.

La Commissione tributaria provinciale respingeva il ricorso della società, mentre la Commissione tributaria regionale accoglieva gli appelli, in considerazione dello stato di degrado e inagibilità dell’immobile, provato da perizia tecnica, oltre ai tentativi di vendita o riconversione.

Contro la decisione l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso, lamentando che “…la parte non ha spiegato in alcun modo perché, pur avendo completato i lavori del complesso alberghiero sin dai primi anni 90, la struttura non sia entrata in funzione, tanto da richiedere, allo stato attuale, dopo oltre 20 anni di inattività, la completa ristrutturazione ai fini dell’agibilità”.

I giudici di piazza Cavour, con l’ordinanza in commento hanno accolto il ricorso dell’Agenzia.

Secondo la Cassazione, in base all’orientamento di legittimità (vedi, fra varie, Cassazione, Sentenza n. 18657/2024) il mancato ottenimento delle autorizzazioni amministrative, di per sé, non è sufficiente per superare la presunzione di non operatività, in quanto la società deve dimostrare che vi siano stati impedimenti oggettivi sopravvenuti e imprevedibili, tali da rendere impossibile l’iniziativa imprenditoriale ed assolutamente indipendenti dalla volontà dell’imprenditore.

Nel caso specifico, l’ultraventennale inattività della società dopo la prima ristrutturazione negli anni 90 e il perseverare dell’imprenditore a conservare in vita la società per anni, vista la dichiarata impossibilità assoluta e oggettiva di esercitare l’attività hanno portato i giudici di Cassazione a concludere che le circostanze oggettive della mancato ottenimento delle autorizzazioni amministrative fossero frutto di una scelta volontaria, tali da non legittimare la disapplicazione della normativa sulle società di comodo.

di Simona Zangrandi

TAG Autorizzazioni amministrativesocietà di comodo

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